Io le dissi ridendo -Ma signora Aquilone, non le sembra un po' idiota questa sua occupazione?
Lei mi prese la mano e mi disse -Chissà? Forse in fondo a quel filo c'è la mia libertà.

martedì 30 novembre 2010

Macchina del pane...sì, no, forse

Macchina del pane Severin 3983
Ebbene sì, possiedo una macchina del pane. Esattamente quella nell'immagine. E' uno dei modelli più economici, io l'ho pagata circa 50 euro. Ne esistono alcune molto più costose, che probabilmente -ma non è detto- sono anche più efficienti. Con questa macchina potete ottenere pani a bauletto da 500g, 750 g e 1 kg. Ha una sola lama impastatrice (le migliori ne hanno due), è programmabile, prevede il programma di solo impasto e può essere usata anche per produrre le marmellate.

Ultimamente delle macchine del pane si sente parlare abbastanza spesso, complici forse l’aumento dei prezzi e l’onnipresente spettro della “crisi” (votata come parola del 2009). Vi sarete forse chiesti se valga la pena acquistarla. 
Per quanto riguarda le macchine del pane di standard medio, come la mia, ecco la mia opinione. 
Una premessa generale. La macchina del pane è un elettrodomestico e come tale comporta costi (ambientali ed energetici) insiti nella produzione e nello smaltimento. Acquistatela quindi soltanto se intendete realmente utilizzarla e pensate che, in base alle vostre esigenze, abitudini e tempo, possano sussistere dei vantaggi, anche in termini di buone pratiche ambientali. Se ad esempio pensate che con la macchina del pane riuscirete a ridurre il ricorso a crackers, pan carrè, fette biscottate e altri pani "artificiali" (e relativi imballaggi, costi di trasporto, etc), allora vale la pena acquistarla. Ovviamente ogni macchina del pane ha un consumo elettrico, ma molto contenuto. Io non sono brava con le conversioni e i calcoli, pertanto vi rimando volentieri all'esperimento di un mio collega blogger, molto più zelante di me. Allo stesso link trovate anche un calcolo dei costi totali del pane autoprodotto con la macchina del pane: 0,80 euro/kg. Considerando i prezzi all'acquisto del pane, che corrispondono almeno al doppio di questo prezzo se non molto di più (per non parlare delle panosità confezionate!), sicuramente il risparmio c'è.
Veniamo ora alle prestazioni di una media macchina del pane: cerchiamo di dipanare dubbi, disilludere aspettative e tracciare un quadro realistico.
Se mangiate il pane tutti i giorni, vi siete abituati a quello leggero e croccante del fornaio, non avete voglia/tempo di sperimentare alla ricerca della vostra ricetta ideale, oppure il pane fatto in casa già lo realizzate e amate l’atto stesso dell’impastare e non ci rinuncereste mai, allora evitate l’acquisto. Con la macchina del pane si possono ottenere odorosi morbidi pani, con le loro brave bolle d’aria, ma probabilmente, anche con la migliore delle ricette, non “leggeri” come quelli del fornaio, ma può capitare che escano anche pesantissimi nuclei di materia simili a piombo fuso, assolutamente immangiabili. Molto dipende dalla ricetta, e dalla voglia di provare e riprovare. Un aspetto molto importante è la scrupolosa successione degli ingredienti che la ricetta indica; in genere, liquidi, farina, sale, zucchero e da ultimo il lievito. Un vantaggio del pane fatto in casa rispetto a quello del fornaio è che quest'ultimo è sì in genere più leggero e friabile, ma spesso il giorno dopo, per non dire giorni dopo, diventa quasi immangiabile (duro, secco, gommoso, etc), mentre il pane autoprodotto con la macchina, se conservato avvolto in un panno, magari in frigorifero, dura dignitosamente alcuni giorni. 
Il bello della macchina del pane è che basta pesare gli ingredienti appoggiando direttamente sulla bilancia la ciotola incorporata, programmare e lasciare che sia “lei” a fare tutto, senza sporcare taglieri, ciotole, stoviglie.  Questo aspetto è molto comodo anche per il programma "solo impasto", che vi consente ad esempio di ritrovarvi una pasta per la pizza perfetta al ritorno dal lavoro, solo da stendere e infornare! Sì, perchè la macchina del pane è programmabile, in genere fino a 12 ore in anticipo. Potete quindi permettervi di coltivare voluttuosi pensieri su colazioni a base di pane appena sfornato...
Un'ultima cosa: lasciate perdere gli impasti dolci (almeno quelli che necessitano di essere frollosi), quelli è meglio farli a mano!

domenica 28 novembre 2010

Il liquore all'uovo, altrimenti detto il Vovve

Attenzione, non il Vov, il Vovve, come lo chiamava, toscanizzandone il nome commerciale, una mia anziana parente. E dunque la ricetta che sto per darvi è quella del Vovve, un liquore leggero, casalingo, gustosissimo e di facilissima preparazione. Qualcosa da preparare un giorno che si abbia una mezz'ora di tempo, da tenere per sè o da regalare. Ecco come lo preparo:

250 g + 3 cucchiai di zucchero semolato
1 l di latte intero
100 ml Marsala
100 ml alcool per liquori
4 tuorli d'uovo (va da sè che le uova devono essere molto fresche)
una stecca di vaniglia (facoltativa)

Portate ad ebollizione (e poi spegnete) il latte e 250 g di zucchero, eventualmente aggiungendo la stecca di vaniglia, che ha sempre la sua personalità. Parentesi: visto il costo esorbitante di questa materia prima, "spremetela" al massimo, ovvero tagliatela a metà e usate le due metà almeno 2 o 3 volte, dopo averle accuratamente lavate. Dopodichè incidetele ed estraetene i semini, anch'essi molto aromatici, e infine utilizzate i baccelli così aperti ancora un paio di volte.
Nel frattempo montate i tuorli con 3 cucchiai di zucchero: dovete ricavare una bella crema spumosa, color giallo chiaro. Ci vorranno almeno 10 minuti di frusta elettrica. Aggiungete delicatamente il marsala.
Quando il latte sarà tiepido (e avrete tolto la stecca di vaniglia) unitevi le uova sbattute col marsala e infine l'alcool. In questi casi è sempre meglio abbattere la temperatura velocemente, quindi invece che lasciar raffreddare il latte a temperatura ambiente ed escludendo di far faticare il frigorifero, suggerisco di posizionare il pentolino col latte bollente dentro una bacinella di acqua fredda, in cui eventualmente potrete mettere anche ghiaccio o pastiglie di ghiaccio sintetico.
Potete a questo punto imbottigliare, meglio in una bottiglia scura, o comunque avendo cura di conservare il liquore al riparo dalla luce. Dopo alcuni giorni diventa più denso e gustoso, ma è buono anche subito.

Una postilla. OVVIAMENTE NON SOGNATEVI DI BUTTARE GLI ALBUMI!!!!!!!!!
Oltre ad utilizzarli per frittate e polpette, gli albumi possono servire per ricavare dei meravigliosi frollini e sono la materia prima per le meringhe, erroneamente ritenute difficili da fare in casa. Tenete presente che gli albumi si possono anche congelare conservandoli in un contenitore e riutilizzare con calma (per le meringhe però preferiteli sempre freschissimi). Ma il modo più semplice per "riciclare" gli albumi che avanzano dalla preparazione del Vovve (o di zabaioni o simili) è la minestra di albumi.
Montate gli albumi a neve con un pizzico di sale (la spuma deve essere molto compatta). Unite un cucchiaio di parmigiano per ogni albume, mescolandolo delicatamente al composto. Versate il composto a cucchiaiate nel brodo bollente (di carne o vegetale).
E' una minestra contadina, piuttosto povera, una rielaborazione in chiave ancor più frugale di quella che in molte regioni viene chiamata Stracciatella, ma è un piatto leggero e piacevolissimo.

English version:
This low-alcoholic lovely liquor is very easy to prepare and perfect as a present: it is in fact usually appreciated even by people who are not used to drink alcoholics.
This is what you need:
250 g + 3 spoons of sugar
1 l of milk
100 ml of Marsala
100 ml of pure alcohol for spirits
4 yolks (of course eggs have to be very fresh)
Some vanilla (optional)

Slightly boil and immediately turn off the milk together with 250 g of sugar (if you want add some vanilla). In the meantime beat the yolks with 3 spoons of sugar: you should obtain a light-yellow colored frothy cream. You may need at least 10 minutes. At the end, add carefully the Marsala.
When the milk is tepid, add the yolks with the Marsala and then the alcohol. It’s a good idea to put the pot with all the ingredients in a bowl filled with cold water in order to minimize the risk of bacterial contamination.
Put the liquor in a bottle, better if it is dark or in any case kept protected from direct light. This liquor is immediately delicious but in some days it becomes even denser and rather more delicious.

La società degli utilizzatori finali

Il mercato dei produttori locali: ogni venerdì pomeriggio al parco Ferrari di Modena 



Prima neve dell'inverno 2010-2011 a Modena. Giornata spalpuccia e pungente, per me cominciata, con mio comodo, alle 13.30 (privilegi dell'oggi non ho nessun motivo di puntare la sveglia). Pranzo veloce e poi anfibi e autobus, verso la mostra-mercato sulla filiera corta.
Comprare secondo una modalità a filiera corta significa tagliare i km, le emissioni, gli inquinanti, l'energia, i costi dovuti agli intermediari che ci sono tra noi e quello che mangiamo, o in generale consumiamo. Comprare insomma prodotti locali, possibilmente biologici.
Ho partecipato a questa iniziativa principalmente per seguire la conferenza di un'autrice che conoscevo, Marinella Correggia, una persona molto disponibile e gentile, che oltre a condividere coi presenti le sue riflessioni ha offerto una torta e una salsa fatte da lei, con ingredienti semplici e sorprendenti, entrambe ottime.
Sono tornata a casa pensando che una buona idea rimane qualcosa di cristallizzato e sterile se non viene condivisa. Personalmente posso avere deciso di bere solo acqua del rubinetto, di fare la raccolta differenziata e di migliorarmi ogni giorno nel farla, di ridurre i miei rifiuti tramite l'autoproduzione e il riutilizzo, l'eliminazione o la riduzione di alimenti lavorati (surgelati, scatolame, dolci confezionati, etc), di scegliere più spesso la bici o l'autobus, di accarezzare l'idea di un lavoro che mi basti per vivere lasciandomi però il tempo di vivermela questa benedetta vita!...ma tutto questo ha poco senso se resta una scelta fra me e me. Se conosci quale sia il comportamento più sostenibile, dillo al tuo vicino perchè lui potrebbe non saperlo. Questo è in buona parte lo spirito che vorrei dare al mio blog.
Marinella Correggia ha definito i consumatori, o almeno alcuni di loro, "utilizzatori finali", prendendo a prestito un'espressione ben nota, riferita a ben noti contesti, e secondo me molto calzante. L'utilizzatore finale può fare spallucce e scuotere la testa, lui non sapeva, lui non credeva, lui non poteva immaginare che l'oggetto di cui si serviva avesse un'illecita o quantomeno dubbia provenienza. Il consumatore che compra senza sapere da dove venga e come sia prodotta la merce che acquista, che ignora quali costi occulti abbia questa merce in termini energetici e in generale ambientali, e spesso anche sociali, è un utilizzatore finale. Io voglio impegnarmi ad essere un po' meno utilizzatore finale e un po' più creatore iniziale. Voglio conoscere la storia dal principio, sapere chi ne sono gli artefici, voglio discriminare e decidere.

venerdì 26 novembre 2010

Perchè sposerò Niccolò Ammaniti

Come al solito arrivo tardi sui libri, come sulle canzoni. Possiedo un cd di Roberto Vecchioni (e questo è solo il primo esempio che mi viene in mente) con alcune canzoni che non conosco ed è lì da anni, inascoltato, perchè quando mi affeziono a un cantante, alle sue canzoni, non ho mai voglia di ascoltarne di nuove; mi sembra di sottrarre tempo all'ascolto di quelle che già so e che amo. Coi libri è lo stesso. Ho adorato "Io non ho paura" e "Branchie", e alcuni racconti di "Fango"; ho sentito parlare Niccolò Ammaniti, l'ho sentito leggere un suo esilarante racconto inedito. Basta, non avevo bisogno di sapere altro per dire che mi piaceva tantissimo.

Sono quindi approdata a questo libro in ritardo di anni dalla sua pubblicazione e non posso che confermare la genialità di questo scrittore.
Non fate come me: leggetelo subito!

E’ una vicenda che si consuma in pochi mesi e si dipana in un flash back talmente fitto di eventi e di personaggi e di pensieri e di divagazioni esilaranti che quando si arriva alla fine ci si ritrova spiazzati dall’antefatto, che pure già si conosceva. Per buona parte del libro si leggono storie di personaggi che si sfiorano soltanto, e sono talmente ben costruite che lo si fa senza bisogno di farsi domande, e solo più avanti nella lettura si comprendono i legami, orditi in maniera esemplare. Si ride con questo libro, si ride soprattutto del personaggio simbolo e cioè Graziano Biglia, un forever young coi capelli lunghi ostinatamente biondi e ostilmente radi sulle tempie, un musicista giramondo che si vanta di essere stato insignito in quel di Riccione della prestigiosa coppa Trumbador. Ci si intenerisce di fronte alle vicende di un ragazzino timido costretto in una famiglia distante, padre alcolizzato, madre depressa, un contesto però raccontato con gli occhi di un dodicenne, che rende il quadro più leggero e al tempo stesso più amaro. Ci si appassiona ad una storia d’amore, avvicinandosi a cuor contento alla fine del romanzo, che promette proprio bene. Ma le promesse sono fatte per non essere mantenute.

giovedì 25 novembre 2010

Lotta al surgelato: la pasta brisè la faccio da me

La pasta brisè (salata) è un ottimo alleato in cucina, perchè serve da base per un'infinità di torte salate (con le verdure, i funghi, la pancetta, i formaggi e chi più ne ha più ne metta!) che possono essere servite come antipasto o secondo, sono comodissime anche come piatto da pic-nic e possono essere preparate anche svariati giorni prima senza perdere di bontà (anzi!). Inoltre può servire per confezionare gustosissimi salatini.
Suggerisco quindi di imparare a farla e di non comprarla surgelata, perchè per mantenere la cosiddetta "catena del freddo" serve molta energia, vi portate a casa imballaggi inutili, la pagate di più e non è affatto più buona di quella che potete imparare a fare da soli.
Io ci metto:

200 g di farina 00 (ma anche 0 non cambia molto)
100 g di burro morbido
1 cucchiaino di sale
1 po' d'acqua fredda

Come tutte le frollosità, dolci o salate che siano, il segreto è impastare poco e velocemente (quindi non trovate la scusa di non avere tempo!); completamente diverso in questo dal procedimento che si usa per le paste lievitate come ad esempio quella della pizza.
Dunque mettete la farina in una terrina o sul tagliere, unite il cucchiaino di sale e distribuite il burro a tocchetti. Cominciate quindi a fare con le dita delle bricioline di burro e farina che inizialmente non devono stare insieme a formare un unico pastone. Quando sarete soddisfatti delle vostre briciole sarà l'acqua a fare la magia. Mettetene poca alla volta e provate ad unire le briciole; non ne servirà più di mezzo bicchiere, ma se eccedete aggiungete un po' di farina. Quando il panetto starà insieme e sarà omogeneo la pasta è pronta! Se avete tempo fatela riposare un quarto d'ora in frigorifero, altrimenti ce la potete comunque fare (soprattutto se non fa troppo caldo).
Con queste dosi si fodera una normale tortiera.

Per stenderla consiglio di usare due fogli di carta da forno, uno sotto e uno sopra, e tirarla con il mattarello. Per domare la carta da forno ed evitare che si arrotoli odiosamente su stessa, appallottolatela e bagnatela con poche gocce d'acqua.
I ripieni per le torte salate possono essere molteplici e personalmente li considero il regno dell'anarchia gastronomica e la via maestra per nobilitare un'infinità di avanzi. I principi base in generale sono: 1) scegliere un tipo di verdura e passarlo prima in padella ad ammorbidire; 2) non far mancare il formaggio, che può essere parmigiano grattugiato e/o uno spalmabile e/o cubetti di un formaggio più sodo; 3) le cipolle già da sole fanno un capolavoro e in generale sono un prelibato ed economico modo per contribuire alla farcitura; 4) il buon ripieno deve essere un buon equilibrio tra umido e asciutto, aggiungete quindi un uovo e un po' di pangrattato (non troppo).
Prossimamente posterò qualche ricetta più precisa, ma adesso dedico gli ultimi secondi prima della cena (tardiva) ad un'idea rapida, di grande effetto sia scenico che gustativo per utilizzare la vostra pasta brisè: i salatini!
Tirate la pasta sottile e ricavate delle striscie alte circa 8 cm e da queste dei triangoli (vedi foto). Ora date sfogo alla vostra fantasia e lasciate che sia anche il vostro frigo a parlare: cosa contiene di stuzzicante? magari dimenticato ma non ancora scaduto? Un modo semplicissimo per riempirli è fondere un po' di burro, spennellarlo sui triangolini e spolverizzare con timo, semi di sesamo o di papavero, rosmarino, salvia, etc...Altrimenti potete metterci straccetti di prosciutto crudo, aggiughe, wurstel, cipolla abbrustolita...insomma, quello che vi pare o quasi. Se volete che i salatini risultino più marroncini in superficie pennellateli con tuorlo o albume d'uovo, o latte. Arrotolate e infornate a 180 °C per circa 20 minuti.

I triangolini di pasta brisè...
...i salatini!















lunedì 22 novembre 2010

L'importanza di chiamarsi "dottorando"

Scorrendo le pagine di Repubblica sono incappata in un articolo che parla di me. Che emozione! Quasi come quando sento la parola "geologo" in un film.
Ok, il quadretto dipinto nell'articolo non è molto incoraggiante, ma almeno ho avuto la sensazione che qualcuno, al di fuori del ristretto mondo dell'università, "ci conosca". Raramente mi è capitato (un'eccezione, scioccante, quella a cui si riferisce l'immagine, di qualche mese fa).

Una delle poche volte è stata a Londra. Stavo andando verso l'aeroporto in taxi insieme ai miei zii, con cui mi ero regalata una breve vacanza. Il taxista mi raccontava che faceva quel lavoro da vent'anni, e che aveva scelto di fare i turni di notte per guadagnare di più. Ha chiesto anche a me cosa facessi, e io mi ero mentalmente preparata ad usare un giro di parole per spiegare che lavoro all'università, ma no, non sono ricercatrice, però sì, il mio lavoro è studiare, tuttavia no, niente di quello che studio finirà in un brevetto, non ne parlerà la televisione, non salverà delle vite umane, però sì, sono pagata per questo, ma faccio ANCHE un paio di lavori più NORMALI. Poi sarà che quando devo parlare in inglese sono pigra e insolitamente sintetica, sarà che ho inavvertitamente dato fiducia al taxista, fatto sta che ho semplicemente detto PhD student.
E...magia! Lui 1) ha saputo subito di cosa stessi parlando; 2) mi ha fatto i complimenti e mi ha detto che gli sembravo molto più giovane. Un uomo adorabile, insomma;) che mi ha portato peraltro a questa conclusione: quanto in Italia i dottorandi sono figure evanescenti, non ben codificate, costrette a volte a transitare nel mondo del lavoro sotto copertura, perchè altrimenti pensano questo marrano è arrivato a 30 anni senza cominciare a lavorare, tanto all'estero probabilmente sono lavoratori riconosciuti dagli altri lavoratori, inclusi i taxisti. E da loro rispettati e considerati con stima invece che con sospetto.

Piccola digressione per chi non è un taxista londinese, è curioso di sapere in cosa consiste l'attività del dottorando e/o vorrebbe tentare la strada del dottorato.
Il dottorando è uno studente. Studia qualcosa per cui è stato incaricato dal professore che lo segue, qualcosa che a quel professore interessa approfondire ma di cui nemmeno lui è esperto (altrimenti non gli servirebbe un dottorando). Facilmente sarà qualcosa di moooolto settoriale, qualcosa di cui difficilmente qualcuno di diverso dal suddetto professore e dalla ristretta cerchia di chi condivide lo stesso ambito di ricerca capirà l'importanza o addirittura il senso, ammesso che ne abbia.
Il mio è un lavoro privilegiato perchè non ho nessun "capo" che mi guarda storto se capisce che sto cazzeggiando. In verità non ho nessun capo (nè coda direbbe qualcuno). Non ho nessuno che mi dice che devo essere al lavoro alle 9, e infatti qualche volta arrivo anche più tardi. Nessuno che mi dice quando devo andare via, o meglio quando non devo andare via. Tecnicamente posso anche rimanermene a casa. L'unica cosa che devo fare è consegnare la mia tesi fra un paio di mesi, e se invece che occuparmi di questo me ne sto qui a cazzeggiare sarà solo allora che qualcuno, forse, se la prenderà con me. Questo stesso vantaggio può a volte trasformarsi in un'arma a doppio taglio, perchè la totale assenza di imposizioni, è noto, determina il caos. E a volte non è semplice relazionarsi con il caos.
Non aspettatevi comunque, cari aspiranti dottorandi, che qualcuno sappia cosa dobbiate fare; dovete saperlo voi, o meglio, auspicabilmente, lo scoprirete. Passerete i primi mesi (o il primo anno, se non di più) a domandarvi cosa dovete esattamente fare e, nei momenti migliori, a fare ricerca bibliografica su quello che qualcuno prima di voi ha detto su quell'argomento. Leggerete decine di articoli di cui non vi ricorderete nemmeno l'autore, figuriamoci il contenuto! Sarete circondati da persone che danno per scontato che voi sappiate gestirvi, quando probabilmente ancora all'università i professori vi hanno accompagnato come scolaretti lungo la strada della conoscenza.
Imparerete l'inglese, questo sì, perchè raramente gli articoli di cui sopra saranno in italiano. Se sarete fortunati viaggerete e sarete spesati; se lo sarete meno viaggerete lo stesso ma vi dovrete arrabbattare per le spese, risparmiando al centesimo, mettendo soldi di tasca propria, sottoponendo il vostro progetto di ricerca financo al concorso di poesie dialettali della parrocchia nella speranza di ricevere un obolo (come avrete inteso, questo è il mio caso). Se non sarete fortunati non viaggerete, e questo è un peccato, perchè viaggiare, soprattutto per lavoro, è un'opportunitò per imparare ad adattarsi e ad avere uno sguardo più critico e consapevole sul mondo.
I mesi passeranno tra giornate in cui non avrete fatto assolutamente niente ed altre in cui in un giorno avrete faticosamente scitto un'intera pagina di qualcosa che il vostro professore vi stravolgerà da cima a fondo, ad altre ancora che passerete dentro un laboratorio nella frenesia di finire senza sapere esattamente a qual fine. 
All'alba del terzo e ultimo anno avrete forse imparato a coltivare il vostro piccolo, minuscolo appezzamento di terreno nel mare magnum della ricerca. Avrete imparato che un poster non è solo quello con le boy band esposto nelle camerette di quando eravate giovani. Saprete maneggiare qualcosa di cui non sapete nulla e destreggiarvi fino a capire per lo meno da che parte guardarlo, e questo sarebbe un buon potenziale per qualsiasi lavoro.
Sarebbe, perchè molto probabilmente la vostra borsa di studio finirà, dovrete mettere in conto almeno un paio di mesi non pagati in cui lavorerete alla discussione finale, ovvero sarete in bilico tra il dottorato e la disoccupazione. Discussione, applausi, bravo, bis, e poi via, col titolo in tasca, verso altri lidi.


domenica 21 novembre 2010

Raviolacci al radicchio rosso con speck e noci

Oggi la mia dolce metà è volata a qualche migliaia di chilometro, è tutto il giorno che piove, e dunque non c’è niente di meglio che dedicare l’intero giorno alla cucina per sanare qualsiasi eventuale cedimento alla malinconia.
In onore quindi degli ospiti di questa sera ho messo a punto il seguente menù:
  • salatini home-made con cocktail alla melagrana
  • raviolacci al radicchio rosso con speck e noci
  • roast beef con patate
  • tortino di cipolle con salsa al gorgonzola
Niente dolce, a quello ci pensano gli ospiti.
Dedico il primo post al piatto forte della cena, i “raviolacci”.

I ravioli/tortelli sono secondo me un’ottima idea per confezionare un primo piatto che comunichi all’ospite un’idea di cura e dedizione senza però risultare eccessivamente complessi. Questi li ho chiamati raviolacci perché ho sperimentato l’aggiunta di farina integrale nella sfoglia, che conferisce un aspetto più rustico al piatto. Questa ricetta è di mia invenzione. Ecco cosa vi occorre.

RIPIENO:
1 radicchio rosso di quelli rotondi
1 porro/scalogno/mezza cipolla (ma quest’ultima è meno delicata)
Tanto buon parmigiano
Poco pan grattato
Due cucchiai di ricotta (facoltativi)
Mezzo bicchiere di vino bianco o birra + 1 punta di zucchero
Olio d’oliva, sale e pepe

Tritate con la mezzaluna la cipollosità prescelta (per i triti eviterei il mixer perché più che tritare maciulla e gli ingredienti si offendono); io ho scelto il porro. Mettete il trito in padella con poco olio (circa 2 cucchiai), sale e pepe a discrezione.  Fate appassire e aggiungete poi il radicchio tagliato a listarelle, completate con il bicchiere di alcolico (io in casa avevo la birra e quella ho usato) e la punta di zucchero, coprite e lasciate stufare per circa 10-15 minuti.
Quando i radicchi si saranno ben rammolliti, spegnete il fuoco e aspettate che si raffreddino. A questo punto tritateli (questa volta col mixer) aggiungete tanto parmigiano in modo che il composto si asciughi e acquisti sapore, completate con circa 2 cucchiai di pan grattato e –se volete, se ne avete in casa, se vi piace- 2 cucchiai di ricotta, che addolcisce un po’. Secondo me molti altri formaggi spalmabili possono starci altrettanto bene. Suggerisco sempre di ottimizzare quello che si ha nel frigorifero.
Il ripieno è pronto. Ovviamente potete prepararlo anche con parecchio anticipo; io l’ho fatto il giorno  prima.

SFOGLIA, il procedimento è noto o si recupera in qualsiasi manuale. Io ci ho messo questo
 400 g di farina di semola rimacinata
100 g di farina integrale
5 uova
2 cucchiaini di sale

Immagino che con una normale farina si possano ottenere comunque buoni risultati, ma io per la sfoglia preferisco la semola e in particolare quella rimacinata (che è più fine della semola normale), che acquisto in uno storico negozio di Modena dove si trovano sfusi tutti i tipi di farina.
Quella della farina integrale è invece una trovata di oggi, e l’effetto estetico e il sentore di rustico sono ben riusciti, ma è assolutamente facoltativa.
Il raviolo, e a maggior ragione se è raviolaccio, può avere una pasta anche leggermente grossolana, quindi io mi sono fermata al punto 5 dell'Imperia. Per tortelli e tortellini preferisco una sfoglia più fine.
Con queste dosi vengono circa 60 ravioli di 4 cm di lato.  Io la considero una dose per 4 persone, massimo 5.
Il ripieno basta per riempirli tutti e ne avanza anche un pochino.

Io di qui a momenti condirò questi ravioli con speck, tagliato a cubetti e saltato in padella, e panna (quella liquida da montare, che si trova nel banco frigo). Alla fine aggiungerò un po’ di noci tritate.
Ritengo comunque che anche un onesto burro e salvia, o burro e noci siano un’ottima alternativa.

Molto bene...vado ad apparecchiare la tavola!

sabato 20 novembre 2010

Compostiera democratica per chi non ha il giardino

...ma ha la fortuna di possedere un balcone, anche minimo.
Per chi non lo sapesse il compost è un fertilizzante naturale, utilissimo per orti e giardini, ottenuto per imitazione dei naturali processi di trasformazione della materia organica. Facendo il compost si può dare nuova vita ai rifiuti organici delle nostre case sottraendoli al ciclo dei rifuti e trasformandoli in risorse!
Basta recuperare un vecchio portabiancheria di quelli di plastica, praticare alcuni fori con il trapano, sia sul fondo che lateralmente. Quando sarà pronta la compostiera andrà poi sistemata un po' sollevata dal pavimento, in modo che l'aria possa passare anche al di sotto.
















 
Procuratevi in ferramenta una rete di plastica con maglie di 1 cm e create un cilindro dotato di base ma libero sopra. Il cilindro dovrà poter stare dentro il portabiancheria lasciando però 2-3 centimetri di spazio dai bordi.
 Adagiate sul fondo del portabiancheria alcuni rametti, in modo da creare un intercapedine che migliorerà l'aerazione nella vostra compostiera. Ponete il cilindro di rete nel portabiancheria e riempite anche l'intercapedine laterale con rametti e foglie secche. A questo punto il portabiancheria potrà essere ufficialmente ribattezzato "compostiera da balcone"!
Non vi resta che iniziare a riempirla con gli scarti della cucina: bucce, scarti di frutta e ortaggi in generale, gusci d'uovo e di frutta secca, fondi di caffè, filtri di té. Evitate carne, pesce, pasta. Andranno benissimo invece i tovaglioli di carta usati e, anche se in piccola quantità, le pagine strappate di vecchi quotidiani. Uno dei segreti per ottenere un buon compost è mescolare adeguatamente scarti "umidi" (appunto, gli avanzi della cucina) e quelli "secchi". Dovrete quindi garantire alla vostra compostiera la giusta proporzione di foglie secche, sfalci, etc...Se, come me, non avete il pollice verde e dunque non avete scarti di guardinaggio, andate a farvi una passeggiata in un parco con una grossa borsa e fate rifornimento;)
E' buona norma introdurre nella compostiera avanzi già un minimo sminuzzati, in modo da rendere più veloce l'azione dei batteri che si metteranno al lavoro per farvi avere il compost, ma non è indispensabile.E' invece fondamentale mescolare di tanto in tanto il contenuto della compostiera con un bastone di legno (ad esempio il manico di una vecchia scopa). Per evitare la colonizzazione di moscerini (in genere comunque del tutto innocui) è una buona idea ricoprire gli avanzi con un sottile strato di terriccio universale, che potete acquistare nei negozi di fai da te...e già che ci siete, se volete ottenere dei risultati più veloci, potete acquistare il prodotto specifico per accelerare il processo di compostaggio (non sono altro che appositi batteri "liofilizzati" che riprenderanno vita nella vostra compostiera).
Io di solito smetto di riempirla quando il contenuto è a circa una spanna dal bordo, ma continuo a rimescolarlo fino a che tutti gli avanzi spariscono (incredibile ma vero!) e nella compostiera non rimane che un bel terriccio odoroso di bosco e umido al punto giusto. In un anno, essendo in due in casa, e con una pausa nei mesi più caldi, si ottengono circa due bei sacchetti di compost. Personalmente non lo utilizzo, perchè non ho nessuna pianta, ma lo regalo a chi ne fa buon uso!

venerdì 19 novembre 2010

Fazio, Saviano e il "prete vanitoso"

Come tanti altri, ho visto per intero la seconda puntata del programma di Fazio e Saviano, e devo dire che fra i molti spunti di riflessione che ha offerto ero rimasta particolarmente colpita dalla storia d'amore
e di morte di Piergiorgio Welby e della moglie, di quei funerali cattolici negati a lui e garantiti invece a tanti discutibili personaggi, dall'abbraccio ideale che don Gallo ha voluto dare a Mina Welby. Leggo su Repubblica che l'intervento di don Gallo da Fazio è stato "scomunicato" dall'Avvenire. Questo prete, indubbiamente sui generis e spesso sopra le righe, è stato indicato come un "prete vanitoso", che si sarebbe prestato alla demonizzazione dell' "unico bersaglio vero" del programma, cioè la Chiesa. 
Deve essermi sfuggito qualcosa.
Io credevo di avere sentito la storia di un uomo colto, brillante e pieno di vitalità, colpito da una malattia che non lascia appelli e che ti porta a morire un giorno dopo l'altro. Di un uomo a cui un giorno, quando era incapace di opporre resistenza, hanno deciso di strappare anche la morte, e che invece di "farsi morire" nel silenzio, ha voluto urlare il suo diritto alla morte in modo che tutti lo sentissero. E che poi è morto, con l'aiuto di un medico pietoso, che quella morte l'ha scongelata e le ha fatto fare quello che da tempo avrebbe voluto. Di una donna che con dolore è stata sempre vicina a quest'uomo. 
Io credevo di avere visto un uomo di chiesa che ha espresso la sua vicinanza per una vicenda umana greve e toccante. Al di là e al di sopra di qualsiasi polemica sui funerali cattolici non concessi. 
Io non ho visto antagonismo verso la Chiesa in questo prete, ma solo carità.
Qualcosa che raramente vedo e sento negli ecclesiastici e nelle tante persone che si dicono credenti. 
   


giovedì 18 novembre 2010

Dialogo del precario e del matusa


Matusa: allora, ti passano poi a tempo indeterminato??? (NdR: garbatamente sottinteso: razza di inconcludente mangiapaneatradimentochenonhoancoracapitochecazzodilavorofai)
Precario: macchè! Sai com’è, i tagli alla ricerca….intanto devo discutere la t…(INTERROTTO)
Matusa: beh ma allora devi trovarti un lavoro!
Precario: ma io sto lavorando: sto scrivendo i risultati della ric…(INTERROTTO)
Matusa: sì ma io dico un lavoro vero.
Precario: (…..) (ESPRESSIONE DUBBIOSA)
Matusa: sì insomma, un lavoro, qualche garanzia, qualche certezza.
Precario: beh, in cooperativa mi hanno detto che forse hanno qualcosa da farmi fare nei prossimi mesi. E poi ho avuto l’idea per un blog…sai, mi piacerebbe far…(INTERROTTO)
Matusa: chi?!?! Quelli che ti pagano 6 euro all’ora???
Precario: ehm…sì.
Matusa: meno di un garzone con la terza elementare. Era meglio se accettavi quel posto là alla Unilab, te l’avevo detto.
Precario: vabbè ma era per 6 mesi e poi a me il lavoro d’ufficio, vestirmi in giacca, non…(INTERROTTO)
Matusa: eeee caro mio, bisogna guadagnarsela la pagnotta! E poi si sa, se entri in certi giri, poi ti rinnovano il contratto e ti mettono a tempo indeterminato.
Precario: (NdR: seee…credici) mmm……però, sai, il blog può diventare il tuo lavoro, ormai uno deve inventarselo il mest…(INTERROTTO)
Matusa: ma almeno te lo danno quelli là il rimborso chilometrico???
Precario: ehm…no.
Matusa: no no, è inaccettabile! È impossibile costruirsi un futuro, una famiglia!
Precario: beh dai però vivo con Silvia da 3 anni ormai.
Matusa: si vabbè…e lei…è andata di ruolo???
Precario: mannò! quest’anno è andata grassa che ha avuto mezza cattedra.
Matusa: e perché??? Meno iscritti a ragioneria? Eeee ma ormai è così, tutti a fare il liceo, e poi tutte quelle lauree assurde…tutti futuri disocc…(INTERROTTO)
Precario: veramente quest’anno è all’istituto agrario.
Matusa: fin là?!?! E ma noooo, doveva rimanere dov’era, così vi vanno tutti i soldi in benzina!
Precario: mica se l’è scelto, va dove la mandano.
Matusa: bah (ESPRESSIONE INCREDULA)! E quella sua amica, quella là che insegna italiano? Quella là è andata di ruolo, vero…? (SGUARDO SPERANZOSO)
Precario: no noooo…ma è incin…(ESPRESSIONE GIOIOSA)…(INTERROTTO)
Matusa: ma quanti anni ha????
Precario: 37…oh, è incint…(INTERROTTO)
Matusa: no no, non si può. E poi per forza che non si fanno figli!
Precario: sì ma lei è incinta! (ESPRESSIONE GIOIOSA)
Matusa: cooooosaaaaaaaaa???!!! Poveraccia…e adesso???
Precario: eh…boh...sì ma lo cercava.
Matusa: e ma nooooo, ma allora è un’irresponsabile. Non ci si può mica fare una famiglia senza qualche garanzia, il lavoro fisso, la casa, e po..(INTERROTTO)
Precario: sì ma ha 37 anni!
Matusa: eeeee caro mio, ma nella vita bisogna imparare a fare dei sacrifici!
Precario: (…..) (ESPRESSIONE DUBBIOSA)

Questa è un’opera di fantasia: ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.

mercoledì 17 novembre 2010

Yogurt


Bastano un piccolo elettrodomestico che costa circa 15 euro e consuma pochi Watt -la yogurtiera, 1 litro di latte, 1 vasetto di yogurt bianco o una bustina di fermenti, per ottenere 7 vasetti di ottimo yogurt!
La yogurtiera che ho io è questa (Girmi).

Non vi scoraggiate se all’inizio (e a volte, inspiegabilmente anche dopo averci preso la mano) qualche esperimento fallisce: dispiace sprecare il cibo, questo sì, ma può valerne la pena, perché basteranno pochi tentativi per “tararsi” ed ottenere nella gran parte dei casi ottimi risultati!
Acquistando la yogurtiera troverete all’interno le istruzioni su come procedere, io aggiungo invece alcuni accorgimenti che forse non troverete, ma che vengono dall’esperienza (e che forse renderanno soddisfacenti anche i vostri primi tentativi!).
Io utilizzo solo yogurt intero e i risultati migliori li ho finora ottenuti con il latte a lunga conservazione Granarolo (non è per fare pubblicità: preciso che non ci guadagno proprio niente!). Alcuni tipi di latte proprio non vanno bene, compresi purtroppo quelli “crudi” venduti alla spina.
Come detto, per cominciare la catena occorre un vasetto di yogurt bianco o una bustina di fermenti. Io suggerisco la seconda opzione, perché non sempre i vasetti che si acquistano al supermercato contengono fermenti ancora vitali (deduzione: ingurgitiamo fermenti lattici belli che stecchiti, altrochè vivi!). Le bustine di fermenti liofilizzati si comprano in farmacia: chiedete fermenti per yogurt e nessuno vi guarderà strano. Dopo aver ottenuto i primi 7 vasetti, ne potrete utilizzare uno per continuare la catena di autoproduzione con ottimi risultati almeno per 5-6 volte.
Per ottenere lo yogurt, il latte mescolato ai fermenti si versa nei vasetti e si attacca l’elettrodomestico all’elettricità: il latte verrà quindi portato alla giusta temperatura, alla quale dovrà rimanere per il tempo necessario. Eccoci giunti ad un ingrediente fondamentale: il tempo. Gran parte del successo della vostra operazione dipenderà dal giusto dosaggio del tempo. Poco tempo infatti non è sufficiente per far raggiungere allo yogurt la giusta consistenza; troppo tempo tuttavia lo rende di consistenza “ricottosa” e troppo acido. 
Il tempo di permanenza nella yogurtiera dipende a sua volta dalla temperatura esterna: d’estate potranno bastare 5 ore, d’inverno 7-8 ore (non 12! come è scritto su alcune yogurtiere). Il modo migliore per monitorare la buona riuscita dello yogurt è tarare i tempi in modo da poterne seguire l’evoluzione una volta trascorse le prime 6 ore in inverno, 4 ore in estate. Lo yogurt è pronto quando scuotendo leggermente la yogurtiera, il contenuto dei vasetti rimane fermo e/o inserendo in un vasetto un cucchiaino (o il dito!) ne esce ben velato.

Lo yogurt che si ottiene è acido al punto giusto, come deve essere uno yogurt naturale. Nulla vi vieta ovviamente di zuccherarlo o meglio ancora di dolcificarlo col miele (a quel punto schiaffateci pure un po' di noci/nocciole e sentirete che soddisfazione!) o con un cucchiaino di marmellata. 
Con un po' di tempo in più, la yogurtiera vi consente di creare anche ottimi yogurt alla frutta (ci vuole circa mezz'ora in più: per tagliare a tocchetti, cuocere rapidamente la frutta con lo zucchero e lasciarla raffreddare). Nelle istruzioni incluse troverete le indicazioni precise.

Tasca di tacchino ripiena

Questa ricetta per tutte le stagioni (se non vi secca brasare in agosto) l’ho imparata ad una scuola di cucina che quando posso frequento molto volentieri: la scuola di cucina Il Girasole di Modena. Ringrazio la curatrice, Lisa, un’autentica pasionaria della buona tavola.

Ingredienti: un pezzo di fesa di tacchino (ma anche petto di pollo) in un unico lobo triangolare (come sempre, per la quantità chiedete al macellaio), 250 g circa di macinato di carni miste (maiale, vitello, etc..), 100 g piselli, 70 g peperone giallo e rosso, pinoli, 1 albume, un po’ di cipolla o scalogno o porro, 1 bottiglia di vino rosso fermo, olio d’oliva, spezie varie (rosmarino, timo, maggiorana, salvia, etc..) (facoltative), sale e pepe.

Il pezzo di carne deve essere inciso in modo da formare una tasca: se non ve la sentite, chiedete al macellaio di fiducia.
Il ripieno si prepara riducendo i peperoni in piccoli cubetti e facendoli appassire in padella con un po’ di cipolla/scalogno/porro  in poco olio. Lessate i piselli (se proprio volete usare quelli in scatola fatelo, ma il sapore è solo lontano parente di quelli freschi o secchi o al limite  surgelati) e i pinoli separatamente (per questi ultimi bastano 1-2 minuti in acqua bollente). In una terrina mescolate la carne tritata, l’albume, i peperoni con tutto il loro soffritto, i piselli, i pinoli, aggiustate di sale e pepe. Naturalmente il ripieno può essere interpretato anche a fantasia, con le verdure di stagione. Suggerisco ad esempio i funghi, gli asparagi, le zucchine, e chi più ne ha più ne metta.
Introducete il ripieno nella tasca di carne, magari con l’aiuto di una tasca da pasticcere, e chiudete l’apertura con 2-3 stecchini. La tasca non deve risultare troppo piena.
In poco olio rosolate la tasca in modo che si colori da tutti i lati. Ci sta bene, come sempre, un soffritto di cipolla/scalogno/porro (eventualmente anche sedano e carote). Versate il vino fino a coprire la carne. Se vi piacciono aggiungete un po’ di spezie, come rosmarino o timo. Coprite e lasciate cuocere a fuoco dolcissimo: un pezzo di tacchino di circa 500 g ci impiega circa 40 minuti, il pollo circa 30 minuti. Mentre nel caso di brasati generici non rappresenta un grande problema eccedere con la cottura, in questo caso sarebbe un peccato perché il piatto si rovinerebbe dal punto di vista estetico.
Estraete la carne. Potete servire questo piatto sia caldo, riducendo il liquido di cottura come per il brasato classico e presentandolo a parte, sia freddo (pennellando le fette di gelatina si può preparare anche il giorno prima). In entrambi i casi, aspettare almeno 15 minuti prima di tagliare la carne a fette. Le fette saranno bellissime perché avranno un sottile strato esterno reso scuro dal vino, in contrasto col bianco della carne e i colori del ripieno.

Pollo brasato alla birra

Brasare significa: prendere un pezzo di carne, generalmente abbastanza grosso (in questo differisce dallo stufato), farlo rosolare velocemente fino a che si colora la superficie esterna, per poi ricoprirlo interamente con un liquido saporito (brodo, vino, birra) e lasciarlo pazientemente cuocere nel suo brodo. Con lo stesso procedimento si possono brasare anche pesce e verdure. Per fare un ottimo brasato occorrono due “ingredienti” da aggiungere a quelli previsti dalla ricetta: un tegame di coccio con coperchio (distribuisce più uniformemente il calore) e la pazienza. I tempi variano a seconda della tipologia e delle dimensioni del pezzo da brasare, ma per le carni rosse non sognatevi di impiegare per la cottura meno di 2-3 ore, 1-2 ore per le carni bianche. E come dicevano i latini, anche col brasato melius est abundare quam deficere: meglio semmai eccedere coi tempi di cottura e ritrovarsi un amorevole e odoroso pezzo di carne che magari si sfalda un po’ troppo, ma comunque buonissimo.
Questa ricetta è una mia invenzione.

Ingredienti: un petto di pollo intero disossato (sufficiente per 4 persone, a meno che non sia l’unica portata!), 66 cl di birra, una punta di zucchero, olio e ammennicoli vari per la marinatura, sale, un dado vegetale senza glutammato (facoltativo), burro e farina per addensare.

Innanzitutto la marinatura. Io vi dico cosa ci ho messo, voi adeguatela al vostro gusto e a quello che avete a disposizione. Un bicchiere di olio d’oliva, trito di aglio e prezzemolo, succo di mezzo limone, un cucchiaino di senape, un po’ di timo, una spruzzata di worcester, sale e pepe. Emulsionate e versate sul pollo. Possibilmente lasciate almeno 2 ore, rigirando il pezzo a metà del tempo.
Filtrate la marinatura (il prezzemolo se cuoce troppo diventa amaro) senza buttare il residuo, fate rosolare il pollo così com’è nella pentola di coccio, rigirandolo quando occorre. Quando tutto il pezzo è colorato, copritelo con la birra. Se non fosse sufficiente a coprirlo o aveste a disposizione solo una bottiglia da 33 cl, allungate senza timori con acqua e in questo caso aggiungete obbligatoriamente un dado vegetale. Unite un pizzico di zucchero, per togliere l’amaro all’alcol. Mettete il coperchio, la fiamma al minimo e dedicatevi ad altro per almeno 2 ore (controllate di tanto in tanto che il liquido non sia evaporato). Verso fine cottura aggiungete il residuo della marinatura.
A questo punto estraete il pollo dal suo liquido di cottura e ponetelo sul piatto da portata. Per restringere il sugo si procede come per la besciamella: in un pentolino fondete un bel tocco di burro, scioglietevi una ragionevole quantità di farina, e versatevi il liquido di cottura caldo, mescolando fino ad addensare. Versate la salsa sul pollo, tenendone magari un po' a parte in una salsiera, e servite.
Non ho ancora provato, ma suppongo che si possano ottenere ottimi risultati anche con altri tipi di carne.

martedì 16 novembre 2010

Differenzio ergo sum

Produrre materiali ex novo comporta un dispendio enorme di energia, acqua, materie prime, in un pianeta in cui tutte queste risorse sono limitate e preziose. In natura il concetto di “rifiuto” non esiste: tutto passa ad altro, serve a qualcos’altro. I rifiuti li ha inventati l’uomo.
In attesa che ogni prodotto venga pensato affinché ogni sua parte si possa riutilizzare dopo l’uso, scegliamo prodotti che limitino lo spreco di imballaggi, riutilizziamo il più possibile, e FACCIAMO LA RACCOLTA DIFFERENZIATA! 

Fare la raccolta differenziata è un obbligo morale, non ci sono scuse.

Non ho tempo. Troviamo il tempo per fare un sacco di cose di dubbie utilità, come guardare certa televisione (io per prima!), incolonnarci nei grandi esodi estivi, accorrere verso gli ipermercati per approfittare delle presunte offerte speciali. Come per tutte le cose, basta prenderci l’abitudine.

Non ho spazio. I prodotti prima del loro utilizzo dovevano pur stare da qualche parte in casa nostra! E com’è che una volta utilizzati non abbiamo più spazio per ospitarli? Facciamo spese più piccole e frequenti (il chè riduce il rischio di acquistare alimenti che poi finiscono per scadere nella nostra dispensa), andiamo più spesso a buttare la spazzatura e/o individuiamo sotto il lavello, in cucina, nello sgabuzzino, sul balcone, i bagno, in garage un punto di stoccaggio. Gli imballaggi non puzzano se vengono sciacquati ed occupano meno spazio se schiacciati.

Non serve a niente. Tanto buttano tutto insieme. Questo è l’alibi più “nobile” di chi semplicemente non vuole ammettere la sua pigrizia. Gestori e consorzi ricevono sovvenzioni statali per i rifiuti differenziati, perciò hanno  convenienza a tenerli separati dal resto. Certo, devono però essere ben differenziati, e questo dipende da noi. I rifiuti ben differenziati fanno invece risparmiare tantissimo, anche sulla bolletta (i costi variabili dipendono dalla percentuale di raccolta differenziata del comune).

Queste cose deve farle il comune, lo stato: io pago le tasse. Il comune, lo stato, siamo noi. Le tasse le paghiamo per ricevere servizi che servono a tutti. Conviene a tutti pagare di meno questi servizi. Il piccolo sforzo che comporta abituarsi alla raccolta differenziata viene ripagato da minori costi per lo smaltimento e la produzione di nuovi materiali; inoltre il pianeta e la nostra salute ringraziano.

lunedì 15 novembre 2010

Territorio: uso e abuso



Oggi ho avuto una dissertazione via email con mio padre a proposito di questo link...l'eterna lotta fra Sancho Panza e Don Chisciotte.
Ecco la mia opinione a riguardo.



Un'area protetta da tutelare è un interesse più importante e che coinvolge un numero maggiore di persone rispetto all'interesse che possono avere delle imprese per i loro approvigionamenti. In genere un'area protetta è istituita, oltre che per necessità di tutela del paesaggio e degli habitat naturali (che hanno un valore forse poco pragmatico, ma già di per sè elevatissimo e che coinvolge le generazioni future), anche per ragioni di sicurezza e in un paese come il nostro non abbiamo proprio bisogno di andare ad alterare l'alveo di un fiume, salvo poi lamentarci che "certi disastri potevano essere evitati".
E questi continui approvigionamenti, questo continuo costruire e costruire, in un paese dove la natalità è ai minimi del mondo occidentale...ho l'impressione che si sia entrati in un meccanismo per cui certe scelte urbanistiche e non solo si fanno solo per avere dei proventi e non per reali necessità. Le tante case, i tanti edifici, che già ci sono non bastano? Non si potrebbero recuperare quelli esistenti? Non si potrebbe incentivare l'utilizzo di materiali di recupero?
Le risorse, energetiche, idriche, le materie prime, lo spazio fisico, la capacità che hanno i sistemi naturali di assorbire gli inquinanti hanno un limite oggettivo e secondo me non si può continuare a pensare la pianificazione territoriale, l'industria, lo sviluppo ignorando questa realtà. "Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un pazzo, oppure un economista", lo ha detto un economista inglese e credo sia una disamina su cui occorrerebbe riflettere.
E per cominciare a instillare nelle persone il necessario cambio di mentalità, a mio modo di vedere è giusto e doveroso che le istituzioni comincino a dire qualche no e a fare scelte impopolari, perchè pochi sono disposti a cambiare rispetto alle vecchie abitudini, a fare dei sacrifici, a rinunciare a una parte del proprio tornaconto se non subiscono delle imposizioni, e questo è ancor più vero in Italia, dove non brilliamo certo di senso della collettività e lungimiranza.

Il senso di Giulia per il cibo

Quando torno a casa la sera o nelle ore libere del weekend so bene cosa scegliere di fare se ho voglia di rilassarmi: cucino. Per me, per i miei cari, perché ho programmato una cena con qualche amico o parente, perché voglio omaggiare un invito a cena a casa d’altri con qualcosa preparato da me, per approfittare del tempo a disposizione per “mettermi avanti” con i pasti dei giorni o dei mesi successivi.
Naturalmente sono una gran golosa. “Si mangia per vivere, non si vive per mangiare”: questo detto occupa i primi posti nella mia personale hit parade dei proverbi odiosi. Certo non si può dire che mangiare sia una della finalità dell’esistenza, ma ritengo che gustare il cibo, possibilmente in buona compagnia, e prepararlo per le persone care sia uno dei condimenti che rendono la vita più saporita. Ho precisato: uno dei condimenti, insieme all’amore, alla passione, al buon umore! E non a caso istintivamente diffido 1) delle persone che non amano mangiare o che preferiscono brodini ed insalate ad altri più sontuosi piatti, 2) degli astemi, 3) di chi ha troppe idiosincrasie alimentari (leggi anche: troppe balle). Conosco una sola persona non golosa, di quelle di cui si può dire che “campi d’aria” (e nel suo caso di arte, essendo una restauratrice), sulla quale non nutro nessuna perplessità, ed è mia suocera, perché compensa il suo distacco dal gusto di mangiare col gusto del preparare…e anzi alcune delle ricette che adoro me le ha insegnate proprio lei!
Già, le ricette. Le ricette che vorrei includere in questo blog non hanno la pretesa di essere esaurienti, ma seguono una sola regola: non sono una cuoca professionista (o non ancora?), perciò parlerò soltanto di ricette sperimentate con soddisfazione da me personalmente nella vita di tutti i giorni, inventate da me, ispirate da un libro, suggerite dalla mamma o dalla nonna (o dalla suocera). Attraverso questo mio umile vademecum vorrei soprattutto condividere con chi mi legge alcuni “metodi” e “approcci” alle materie prime: come a dire che imparando le quattro operazioni base possiamo sommare, sottrarre, moltiplicare e dividere qualsiasi numero, e questo vale anche per la cucina. Bastano alcuni semplici attrezzi, buon senso, buon gusto, passione, e non esistono ricette impossibili (o quasi…). Infatti io non cucino quasi mai le stesse cose quando ho invitati a cena!

Autoproduzione: perchè?

Il mio viaggio nell’autoproduzione è cominciato gradualmente, grazie all’influenza di due cari amici meteorologi, ambientalisti senza estremismi ma con tanta passione. Ho cominciato così a riflettere sui costi ambientali della globalizzazione. Mangiamo tutto l'anno frutta e ortaggi di cui non conosciamo più la stagionalità, senza chiederci da dove vengano, senza considerarne i costi energetici (carburante speso) e ambientali (gas serra emessi). Scegliamo sempre più spesso alimenti confezionati o surgelati senza pensare che gran parte del prezzo che paghiamo si deve agli imballaggi, che poi finiranno col saturare di rifiuti il nostro Pianeta. Siamo sedotti dai prezzi all’apparenza convenienti senza renderci conto che il risparmio lo paghiamo in costi ambientali e umani, perché molto spesso i prezzi bassi raccontano dell’arricchimento di multinazionali che disboscano i paesi del cosiddetto Terzo Mondo per fare spazio ad agricoltura e allevamento intensivi al fine di nutrire le civiltà opulente dell’Occidente, affamando quelle autoctone.
Autoprodurre significa per me limitare i costi ambientali delle proprie scelte di consumo, controllare ciò che mangiamo, spesso mangiare prodotti più sani e più buoni. Ma non solo. Autoprodurre significa aprire gli occhi su quanto siamo diventati vittime e carnefici di noi stessi attraverso l’arma subdola della fretta: Lo farei ma non ho il tempo, quante volte lo diciamo? E’ vero che quasi tutti lavoriamo (a volte forse anche troppo rispetto a quelli che sarebbero i nostri reali bisogni), ma infarciamo anche il nostro tempo libero, le serate, i finesettimana, le ferie, di attività spesso praticate compulsivamente (palestra, locali, corse ai saldi, esodi estivi, etc), che in definitiva spesso ci stressano perché ci fanno correre anche nel tempo libero, lasciandoci l’impressione, appunto, di non avere mai tempo. L’autoproduzione porta a limitare le file agli ipermercati (altra attività compulsiva, spesso assai stressante) e ad aumentare invece l’attenzione e il tempo dedicati a scelte più consapevoli, ad acquisti effettuati presso realtà più umane come i piccoli mercati o i gruppi d’acquisto, alla realizzazione amorevole di cibo buono e sano, preparato con cura per le persone che amiamo. Se si comincia poi ci si prende gusto e ci si accorge che ti tempo ne abbiamo eccome!