Io le dissi ridendo -Ma signora Aquilone, non le sembra un po' idiota questa sua occupazione?
Lei mi prese la mano e mi disse -Chissà? Forse in fondo a quel filo c'è la mia libertà.

mercoledì 3 luglio 2019

Capitano mio capitano, questo è troppo

Raramente parlo di politica. Non lo faccio principalmente per umiltà, perchè ritengo di non sapere mai abbastanza per avere una visione oculata su temi spesso molto complessi. La seconda ragione per cui non lo faccio è che, proprio per questa mia propensione ad un ragionevole silenzio, di fronte a quanti invece pontificano con la verità in tasca, esprimendo con veemenza il proprio punto di vista, pur magari traballante nelle motivazioni, provo fastidio e imbarazzo. Come per i comici che non fanno ridere, avverto quel disagio che induce a cambiare canale; opzione che in una normale conversazione non è concessa.
Figuriamoci poi se parlo di politica sui social, laddove qualsiasi comune regola del conversare viene dilaniata dal pressappochismo imperante.
Pertanto non ho espresso pareri, che pure ho, sull'abusata vicenda della Capitana Carola, sui commenti del nostro ministro e di alcuni esponenti politici, sulle strumentalizzazioni di altri, sulle prese di posizione, sempre perentorie in un verso o nell'altro, della pletora di saggi da tastiera.
Tuttavia, in questi giorni in cui è il caso Seawatch a dominare l'opinione pubblica e con essa l'attenta bacheca FB di Matteo Salvini, a colpirmi è un post su un argomento "minore", il caso Vannini e in particolare l'intervista fatta da Franca Leosini al principale imputato. Questo è troppo.
"La vita di un ragazzo ucciso, in maniera infame, vale solo cinque anni di galera? Questa sarebbe "giustizia"? Che schifo. Verità per Marco Vannini."

Hanno diritto familiari e amici a ritenere questa giustizia uno "schifo". La loro disperazione infinita e insanabile da sola basta a motivare le urla rabbiose della madre alla lettura della sentenza.
È comprensibile che la persona comune provi empatia per la vittima e i suoi familiari e per istinto auspichi una legge che "bilanci" lo strazio della morte immotivata di un ragazzo di vent'anni con la pena elargita ai responsabili.
Tuttavia la legge non è istinto, è anzi regolamentazione razionale delle molteplici situazioni umane e non deve pertanto limitarsi a soppesare una vita con una vita, occhio per occhio, perché in tal caso non servirebbe un processo; basterebbero un'ammissione di colpevolezza, come in questo caso, o una serie di prove inconfutabili per decretare il massimo della pena. Questo "schifo di giustizia" ha un compito più arduo, cioè sondare come e perché si è giunti a quel drammatico esito e parametrare la pena non al grado di "infamia" di una morte, bensì al grado di consapevolezza e volontarietà di chi la provoca.
Questo prevede il nostro diritto.
È però difficile per la persona comune accettare e comprendere situazioni tanto complesse; lo è stato per me cercare di farlo ascoltando quell'intervista, ma credo sia necessario e rispettoso almeno tentare. Perché la rabbia, quella cieca e irrazionale, spetta soltanto a chi in quella vicenda ha perso un figlio, un nipote, un amico. Tutti gli altri a mio avviso dovrebbero fare un silenzioso passo indietro, ascoltare, magari dissentire, ma accettare.
Per un rappresentante delle istituzioni poi schierarsi con i leoni da tastiera e contro lo stesso Stato che rappresenta per racimolare qualche punto di consenso, quando dovrebbe anzi aiutare la persona comune a chiarire, comprendere, rispettare, è questo sì spaventoso e "infame".






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